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Web Tax in Italia: caratteristiche e criticità in attesa di un intervento comune

Lo sviluppo dovuto alla Rivoluzione Digitale e l’avvento della New Economy hanno sconvolto molte delle certezze della vita sociale. Le disposizioni normative non fanno eccezione e da tempo gli Stati cercano di inseguire le innovazioni perfezionate dai leader del nuovo mercato digitale al fine di riuscire ad assoggettare ad imposizione le ricchezze di questi colossi. 

In seno all’UE e all’Ocse si cerca da tempo di trovare una soluzione comune, che stenta ancora ad arrivare. Intanto, alcuni stati hanno implementato un’imposta volta a colpire la ricchezza generata dai leader dell’economia digitale. 

L’Italia ha adottato un’imposta sui servizi digitali, basata sul modello di una proposta dalla Commissione europea, e prevista anche dalla Francia. Si tratta di un’imposta che si applica ai servizi digitali fornititi da imprese, anche non residenti in Italia, che superano una duplice soglia. La prima richiede che nell’anno precedente al periodo di applicazione l’impresa abbia prodotto a livello globale ricavi superiori a €750.000.000, calcolati per competenza. La seconda prevede poi una soglia di €5,5 milioni di ricavi per i servizi digitali offerti in Italia, calcolati per cassa, nel periodo di imposta. 

L’imposta viene liquidata applicando un’aliquota del 3% all’ammontare dei ricavi tassabili realizzati dai soggetti passivi nel corso dell’anno. Tali ricavi sono quelli derivanti dall’attività di profilazione e di pubblicità personalizzata veicolata online da soggetti come Google e Facebook e dalle commissioni che gli operatori come Amazon incassano sulle operazioni effettuate mediante la loro piattaforma. A questa generale individuazione segue una negative list di fattispecie che non danno luogo a servizi rilevanti ai fini dell’imposta. 

Viene infine in rilievo un criterio territoriale, per cui il legislatore ha previsto che l’utente del servizio debba essere sul territorio italiano. Tale requisito è accertato verificando che l’IP del suo dispositivo sia riferibile al nostro paese. 

Descritta a grandi linee la struttura dell’imposta, occorre analizzarne le criticità di fondo. Innanzitutto, si tratta di un’imposta sul fatturato, il cui peso economico verrà probabilmente spostato sugli utenti. Si pongono poi dei problemi strutturali di difficile risoluzione. Il più evidente concerne il requisito territoriale, che crea un contrasto con la normativa privacy. Infatti, la legge richiede ai soggetti passivi di tracciare le transazioni effettuate con gli utenti con dispositivi presenti nel territorio dello stato, individuati attraverso la localizzazione dell’indirizzo IP. Tuttavia, le norme sulla privacy prevedono che i titolari dei dati possano escludere il consenso per questo tipo di informazione nelle impostazioni del dispositivo o della piattaforma. Senza contare che esistono modi per camuffare o alterare l’IP di riferimento. In tal proposito, l’Agenzia delle Entrate ha stabilito che l’indirizzo IP non costituisce il criterio esclusivo per localizzare l’origine della transazione, potendo venire in rilievo altri elementi sostanziali. Inoltre, per verificare il superamento della doppia soglia, si fa carico al contribuente di disporre una doppia contabilità, per competenza e per cassa. 

Quello che si prospetta è quindi un’imposta con numerosi problemi nella fase di accertamento e liquidazione e che probabilmente finirebbe per incidere anche sui grandi gruppi di imprese che, già fiscalmente residenti in Italia, vedrebbero incrementare il loro carico fiscale. 

Andrea Gallese

Associato Senior Area Legale

Elena Morelli