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Vivere in una grande città significa, per gran parte della popolazione, avere un tenore di vita sensibilmente migliore. Sentirsi soddisfatti e consapevoli di avere numerose prospettive di carriera nel proprio futuro, per uno studente, ma non solo, è una misura rassicurante. Nei tempi attuali, purtroppo, lo scenario di riferimento è completamente differente. Al giorno d’oggi, la vita in città risulta disagevole e stressante. I fattori scatenanti di questa insoddisfazione e frustrazione quotidiana sono diversi: recarsi a lavoro sapendo che la mattina il flusso del traffico si blocca per ore; trovare accumuli di rifiuti per le vie della città, che occupano le strade e rendono l’aria irrespirabile; vedere sempre più aree non pulite e poco curate, spazi verdi trascurati e mal gestiti e infrastrutture pubbliche fatiscenti e non funzionanti.
L’espansione incontrollata degli spazi urbani ed il suo conseguente inurbamento ha portato a forti problemi di natura organizzativa, rendendo le città invivibili, ed ha notevolmente incentivato la diffusione della criminalità e dell’illegalità, dell’emarginazione sociale, della solitudine dei malati, dei disabili e degli anziani. Le città, inoltre, consumano un’enorme quantità di energie e risorse non rinnovabili, causando forti danni all’ecosistema ambientale. Numerosi studi e previsioni sulle condizioni di vita future dipingono il medesimo scenario: nei prossimi anni servirà più cibo, più acqua e più energia, per una popolazione mondiale di 9 miliardi di persone e concentrate per il 70% nelle aree urbane.
In questo scenario, si è collocata l’esigenza di realizzare dei nuovi modelli di città, le cosiddette “città del futuro”, sostenibili, a misura d’uomo, che garantiscano ai loro abitanti servizi elevati ma che allo stesso tempo consumino meno risorse naturali e preservino l’impatto ambientale mantenendo l’inquinamento entro i limiti non dannosi per l’ecosistema terrestre. Da questa necessità è nato il concetto e lo sviluppo delle smart cities. Una smart city è un’area urbana in cui, grazie all’uso delle tecnologie digitali e, più in generale, delle innovazioni tecnologiche, è possibile ottimizzare e migliorare le infrastrutture ed i servizi ai cittadini, rendendoli più efficienti. Si basa sull’interconnessione di infrastrutture come energia, mobilità, produzione, telecomunicazioni, ambiente, ricerca e sviluppo, grazie a sistemi altamente digitalizzati come l’Internet of Things, la robotizzazione, il Machine Learning e la Big Data Analytics.
L’European Smart City Project ha elencato un programma secondo il quale, per essere definita smart city, una città deve essere caratterizzata da almeno una delle tipologie elencate: Smart Governance, Smart Economy, Smart Mobility, Smart Living, Smart People, Smart Environment. Tuttavia, una città non è intelligente solo se diventa più tecnologica, ma quando chi usa tale tecnologia è abile a coglierne le sue opportunità. I cittadini e gli amministratori di queste nuove organizzazioni dovranno mobilitare risorse ed energie per migliorare la cura dell’ambiente, la gestione della mobilità, la sicurezza, la salute e l’integrazione. La vera scommessa delle smart cities, quindi, si presenta sul lato sociale. Nuovi stili di vita, consapevolezza e sostenibilità cresceranno solo se si investirà sull’educazione e se si saprà comunicare con chiarezza che i comportamenti giusti potranno rendere vivibile il futuro.
Antonio Morabito, Associato in prova Area Business Development
È ormai più che noto il fatto che il comparto dell’istruzione italiana non sia più conforme con un paese che, seppur sempre meno, è ai vertici dell’economia mondiale.
Non è assurdo che mentre il mondo si sia incredibilmente evoluto negli ultimi 60 anni, il metodo di approccio allo studio, e quello all’insegnamento soprattutto, siano rimasti sommariamente immutati rispetto a quelli dei nostri nonni?
Ovviamente si. Il motivo?
Nel 2017 l’Italia era quartultima in Europa per investimenti nell’istruzione in rapporto al Pil.
Il nostro paese nel 2017 ha investito solo il 3.8% del PIL nazionale (Germania 4.1%, Francia 4.7% nello stesso anno).
Oltre all’evidente precarietà delle infrastrutture e dei servizi forniti dalle scuole pubbliche, l’Italia è tra le peggiori per tasso di digitalizzazione e computerizzazione dell’istruzione in Europa.
In un mondo globalizzato e soprattutto fortemente digitalizzato, è incomprensibile come gli studenti di istituto superiore, al di fuori di quelli tecnici-informatici, non abbiamo assolutamente confidenza con i vari linguaggi di programmazione (Python, Java etc.) o addirittura con Excel, Word e simili.
Questo crea un profondo gap con i paesi esteri che, riconoscendo il valore della tecnologia nell’istruzione, hanno investito molto in digitalizzazione.
Un altro problema sono le materie. Latino, storia, storia dell’arte, filosofia sono materie fondamentali per la formazione culturale di un ragazzo; tuttavia, dovrebbero essere integrate con materie che permettano allo studente di acquisire nozioni più pratiche, da spendere nel mondo del lavoro.
In Italia il percorso formativo è poco personalizzabile e non è possibile scegliere di studiare una materia (informatica ad esempio) piuttosto che un altra.
In Finlandia, paese che detiene un record mondiale per la qualità dell’istruzione, la scuola offre agli studenti una pletora di materie, ognuno sceglie quelle più conformi con i propri interessi e con i propri piani futuri. Di conseguenza gli studenti sono più motivati e spesso ottengono risultati migliori.
Inoltre, lo studio, in Italia, tende a essere molto individuale e nelle classi di scuola c’è un clima di competizione poco proficua.
La ministra finlandese asserisce che i lavori di gruppo sono di fondamentale importanza per la crescita degli studenti. Team working, problem solving, capacità di leadership e public speaking sono aspetti profondamente sottovalutati nel sistema dell’istruzione italiana; tuttavia, le cosiddette “soft skils” sono fondamentali per la formazione scolastica ma soprattutto lavorativa di uno studente.
Infine, due brevi riferimenti alle università. Due dati sono di fondamentale importanza.
Il tasso di abbandono: tra il primo e il secondo anno lasciano gli studi universitari il 21,3% degli studenti (fonte MIUR).
Compenso di un laureato in relazione a quello di un diplomato: chi ha solo la triennale ha un reddito medio di €29.671 l’anno, inferiore ai €29.761 di chi possiede il diploma.
Il tasso di abbandono è così elevato proprio perché non c’è una netta convenienza nel proseguire gli studi.
L’Italia non premia il merito e non incentiva la formazione, questo è un grave problema perché come disse Malala: “un bambino, un insegnante, un libro, una penna possono cambiare il mondo. L’istruzione è la sola soluzione”.
Giorgio D’Angelo, Associato Senior Area Consulenza d’Impresa
Lo sviluppo dovuto alla Rivoluzione Digitale e l’avvento della New Economy hanno sconvolto molte delle certezze della vita sociale. Le disposizioni normative non fanno eccezione e da tempo gli Stati cercano di inseguire le innovazioni perfezionate dai leader del nuovo mercato digitale al fine di riuscire ad assoggettare ad imposizione le ricchezze di questi colossi.
In seno all’UE e all’Ocse si cerca da tempo di trovare una soluzione comune, che stenta ancora ad arrivare. Intanto, alcuni stati hanno implementato un’imposta volta a colpire la ricchezza generata dai leader dell’economia digitale.
L’Italia ha adottato un’imposta sui servizi digitali, basata sul modello di una proposta dalla Commissione europea, e prevista anche dalla Francia. Si tratta di un’imposta che si applica ai servizi digitali fornititi da imprese, anche non residenti in Italia, che superano una duplice soglia. La prima richiede che nell’anno precedente al periodo di applicazione l’impresa abbia prodotto a livello globale ricavi superiori a €750.000.000, calcolati per competenza. La seconda prevede poi una soglia di €5,5 milioni di ricavi per i servizi digitali offerti in Italia, calcolati per cassa, nel periodo di imposta.
L’imposta viene liquidata applicando un’aliquota del 3% all’ammontare dei ricavi tassabili realizzati dai soggetti passivi nel corso dell’anno. Tali ricavi sono quelli derivanti dall’attività di profilazione e di pubblicità personalizzata veicolata online da soggetti come Google e Facebook e dalle commissioni che gli operatori come Amazon incassano sulle operazioni effettuate mediante la loro piattaforma. A questa generale individuazione segue una negative list di fattispecie che non danno luogo a servizi rilevanti ai fini dell’imposta.
Viene infine in rilievo un criterio territoriale, per cui il legislatore ha previsto che l’utente del servizio debba essere sul territorio italiano. Tale requisito è accertato verificando che l’IP del suo dispositivo sia riferibile al nostro paese.
Descritta a grandi linee la struttura dell’imposta, occorre analizzarne le criticità di fondo. Innanzitutto, si tratta di un’imposta sul fatturato, il cui peso economico verrà probabilmente spostato sugli utenti. Si pongono poi dei problemi strutturali di difficile risoluzione. Il più evidente concerne il requisito territoriale, che crea un contrasto con la normativa privacy. Infatti, la legge richiede ai soggetti passivi di tracciare le transazioni effettuate con gli utenti con dispositivi presenti nel territorio dello stato, individuati attraverso la localizzazione dell’indirizzo IP. Tuttavia, le norme sulla privacy prevedono che i titolari dei dati possano escludere il consenso per questo tipo di informazione nelle impostazioni del dispositivo o della piattaforma. Senza contare che esistono modi per camuffare o alterare l’IP di riferimento. In tal proposito, l’Agenzia delle Entrate ha stabilito che l’indirizzo IP non costituisce il criterio esclusivo per localizzare l’origine della transazione, potendo venire in rilievo altri elementi sostanziali. Inoltre, per verificare il superamento della doppia soglia, si fa carico al contribuente di disporre una doppia contabilità, per competenza e per cassa.
Quello che si prospetta è quindi un’imposta con numerosi problemi nella fase di accertamento e liquidazione e che probabilmente finirebbe per incidere anche sui grandi gruppi di imprese che, già fiscalmente residenti in Italia, vedrebbero incrementare il loro carico fiscale.
Andrea Gallese
Associato Senior Area Legale
Spamahus, Wannacry, NotPety: sono solo alcuni tra i più noti e drammatici attacchi cibernetici.
La lista è indubbiamente lunga, ma ciò che più spaventa sono le incursioni di hacker di cui non si ha riscontro perché non rilevate dai sistemi di difesa.
È ormai risaputo come il processo di digitalizzazione e sviluppo informatico abbiano permesso immensi benefici a livello sociale, economico e scientifico, aumentando simultaneamente ed in maniera esponenziale i rischi connessi all’utilizzo di tecnologie, soprattutto riguardo quei settori (bancario, sanitario, assicurativo…) ritenuti più sensibili. Ma procediamo con ordine.
Con il termine hackeraggio si intende quel complesso di attività attuate e perseguite da individui o organizzazioni, volte all’introduzione illegale all’interno di un sistema informatico. Esistono vari tipi di “igiene” in termini di cyber-sicurezza, precauzioni che vengono adottate al fine di rendere meno vulnerabili i propri sistemi informatici: sistemi di rilevamento delle intrusioni, firewall, strumenti di difesa hardware e software, accompagnati da una costante formazione dei dipendenti.
Data la recente consapevolezza del problema e la conseguente diffusione di una cultura specifica, diventa irrilevante sottolineare come dotarsi di tali strategie difensive sia non solo consigliato dagli esperti, ma assolutamente necessario.
Tuttavia, riflettendo sui danni economici e reputazionali che grandi multinazionali e giganti del web hanno recentemente subito a causa di intrusioni nei propri sistemi, di primo acchito sorge spontaneo interrogarsi non solo sull’abilità degli hackers, siano essi black hat o grey hat, ma anche sulle gravi falle dei sistemi di difesa informatica che hanno permesso l’indebita sottrazione di dati.
La sconcertante verità è che le vittime degli attacchi informatici sono spesso più che preparate a riceverli, ma purtroppo nessun sistema di sicurezza garantisce un’assoluta protezione delle informazioni sensibili: data l’evidente impossibilità di creare un sistema di sicurezza assolutamente inviolabile, che tipo di comportamento dovrebbero adottare le organizzazioni e le imprese? E ancora, come possono affrontare il lato oscuro della digitalizzazione quelle PMI che spesso non dispongono di risorse da destinare all’incremento dei propri sistemi cibernetici?
Andy Bochman, riconoscendo i limiti intrinsechi di qualunque Cyber Igiene, sostiene che solamente un costoso e dispendioso regresso dal digitale all’analogico, almeno per quelle informazioni ritenute più sensibili e strategiche, potrà ridurre eventuali perdite causate da attacchi informatici mirati. In questo nuovo approccio, condiviso dagli esperti, emerge un chiaro sentimento di rassegnazione: se il massiccio investimento di risorse volto a creare barriere di sicurezza non fosse sufficiente, diventerà necessario adoperarsi quotidianamente per il contenimento dei danni che indubbiamente si subiranno.
Nicolò Corti, Associato in prova Area Commerciale
L’umanità utilizza le monete da circa 3100 anni, mentre le banconote, invenzione cinese del IX secolo a.c., vennero introdotte in Europa solamente nel periodo Napoleonico. La prima grande rivoluzione delle transazioni economiche si ebbe negli anni 50 del secolo scorso con l’introduzione delle carte di credito e debito, che attualmente rappresentano uno degli strumenti di pagamento più diffusi.
I recenti sviluppi tecnologici dimostrano una progressiva diminuzione nell’utilizzo della carta di credito, favorendo i pagamenti digitali tramite smartphone.
Al fine di facilitare le transazioni di denaro, l’Italia sembra “rifiutarsi” di stare al passo con il panorama europeo in tema di pagamenti e sviluppo di tecnologie; attualmente, infatti, il nostro Paese è solo al 24esimo posto in Europa per digitalizzazione dei pagamenti.
Nella seconda metà degli anni 80’, sul territorio italiano, si vide la prima diffusione delle carte di credito, divenute strumento della quotidianità dei cittadini solo recentemente.
Tuttavia, facendo spazio ai dati, è possibile fare un confronto sul numero delle operazioni annuali, tramite carta di credito, effettuate in media ad personam: in Italia (46) ed in Europa (135). Questi risultati fanno riflettere: basti pensare che l’Italia è uno dei primi paesi europei per evasione fiscale dell’IVA.
A tal proposito, è la tracciabilità che lega i pagamenti digitali all’evasione fiscale: a differenza del denaro contante, infatti, ogni operazione eseguita digitalmente può essere rintracciata ed identificata, rendendo impossibile ogni tentativo e forma di frode.
Un recente studio ISTAT afferma che il 60% degli italiani è favorevole ad un aumento dei pagamenti digitali, a dispetto dell’utilizzo di denaro contante. Dunque, cos’è che frena l’Italia dall’attuare manovre chiare ed incidenti in materia di digital payment?
Una delle problematiche principali è di sicuro il costo delle commissioni addebitate tramite POS, specialmente nelle cosiddette “micro transazioni”. Tale costo, in relazione con gli standard europei, è molto alto per l’Italia.
Se questo ostacolo fosse eliminato, molti esercenti sarebbero favorevoli all’accettazione dei pagamenti elettronici.
Un altro problema importante risiede nell’attuale situazione demografica italiana: l’ISTAT conferma i trend negativi degli ultimi anni, contando oltre 13 milioni di over 65 sul territorio italiano. Questo alto tasso di anzianità, insieme ad una notevole diminuzione delle nascite, spiega il perché della bassa inclinazione ai cambiamenti nel nostro Paese.
Dal punto di vista “digital”, infatti, è chiaro che le persone anziane non siano in grado di sostituire le nuove forme di pagamento al classico contante.
Per far fronte a questa difficoltà, si è ipotizzata la creazione di un “portafoglio digitale”: una carta di credito legata al documento di identità e ricaricabile presso tabaccherie o banche.
Tuttavia, fa riflettere che, mentre in Italia è molto comune trovare i classici cartelli, appesi alle porte dei negozi, con su scritto “non si accettano contanti”, in paesi come la Svezia, a Göteborg, città con poco più di mezzo milione di abitanti, girano cartelli che riportano la frase “siamo senza contanti”.
Lorenzo Romanzi
Associato in prova area consulenza