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Sostenibilità e crescita: potremmo riassumere il significato e gli obiettivi della transizione ecologica e del Patto di Stabilità e Crescita in queste due semplici e significative parole. Ancor prima di evidenziare gli imprescindibili legami tra questi ultimi è doveroso descriverne le caratteristiche e la natura.
Nel lungo processo di integrazione europea iniziato nel dopoguerra, il Patto di Stabilità e Crescita rappresenta uno dei più determinanti Pilastri e vincoli tra i Paesi che hanno scelto di intraprendere un percorso più che mai comune: la moneta unica. Possiamo, inoltre, affermare che sia uno dei documenti maggiormente discussi e decisivi per i risvolti economici degli Stati adottivi. Il patto è stato stipulato e sottoscritto nel 1997, per rinforzare il programma di convergenza del Trattato di Maastricht del 1992. Le successive modifiche e revisioni, soprattutto nel 2011 con il Six Pack, hanno sempre avuto come protagonisti e focus delle analisi i famosi parametri del 60% del rapporto debito/PIL e 3% cel rapporto deficit/PIL. Ciò che più è stato al centro dell’attenzione negli anni sono stati i criteri di definizione di questi parametri, che da molti studiosi sono stati definiti sbagliati ed inventati: grazie al quotidiano francese “Aujourd’hui” si è scoperto che il 3% fu inventato da un funzionario del dipartimento del bilancio al Ministero delle Finanze francese, Guy Abeille, poiché rappresentativo della Trinità e regola semplice da imporre ai ministri che frequentemente richiedevano finanziamenti. Per quanto riguarda il 60%, dei ricercatori dell’Università del Massachusetts hanno riconosciuto come sia figlio di errori nel foglio Excel durante lo studio della correlazione tra debito e crescita.
Possiamo, quindi, immediatamente comprendere come sia stato tema e motivo di molteplici politiche economiche, nonché di scelte dei vari Governi italiani un tale vincolo per l’adozione della moneta unica, soprattutto in considerazione dell’alto rapporto debito/PIL che contraddistingue la storia economica dell’Italia. Quando, poi, determinati vincoli possono entrare in contrasto e mettere in seria difficoltà molteplici Stati nel raggiungimento di obiettivi ed agende comunitarie e non, si apre il dibattito: è ciò che sta accadendo in questa fase autunnale di politica comunitaria.
La crisi causata dal Covid, iniziata nel 2020 ha fin da subito messo in discussione la possibilità di rispettare tali parametri a fronte della necessità dei Paesi dell’Unione di dover accedere a fondi comuni di finanziamento, accrescendo il debito, per fronteggiare una difficile crisi. Ciò ha portato alla sospensione del rispetto dei criteri del Patto, i quali però dovranno essere reintrodotti.
Nonostante tale crisi, non si può tuttavia trascurare l’importanza degli impegni assunti dagli Stati membri delle Nazioni Unite con i 17 obiettivi Agenda 2030, gli SDGs (Sustainable Development Goals): un’agenda di obiettivi adottata nel 2015 che trova nel decennio 2020-2030 il periodo per raggiungere i risultati posti nel combattere la povertà, ridurre il gender gap e far fronte all’emergenza climatica. In questo contesto si inseriscono i fondi minimi da dedicare al Next Generation EU all’interno del Recovery Fund.
Tenendo, perciò in considerazione tutti questi fattori, il Commissario europeo per gli affari economici e monetari della Commissione Paolo Gentiloni aveva già annunciato da mesi la necessità della revisione del Patto di stabilità e crescita.
In data 9 novembre 2022 vi è stata la presentazione delle proposte, che è importante preannunciare, non prevede la modifica dei due famosi parametri. Tuttavia, nella proposta, si trova l’importante affermazione nella volontà di andare oltre e non tenere più in considerazione l’obbligo per i Paesi eccedenti il 60% del rapporto debito/PIL di diminuire il surplus di un ventesimo l’anno, poiché ritenuto un criterio “non realistico”. Nel mentre, gli Stati avranno la possibilità di stipulare un piano con un percorso di riduzione del debito dai 4 ai 7 anni, ma “…se un Paese propone un piano, lo negozia, viene approvato ed è realistico con un livello di riduzione molto graduale, penso non solo sia giustificato ma anche necessario che in mancanza di questo ci siano delle procedure”, ha dichiarato Gentiloni. In merito a questo, la proposta non prevede la rimozione della procedura per deficit eccessivo, che verrà rinforzata in caso di deviazione del percorso concordato sulla riduzione del debito, con possibile sospensione dei fondi del PNRR.
Gentiloni ha anche recentemente parlato, in considerazione degli obiettivi internazionali e dei vincoli in tema di debito, della possibile valutazione di una scissione delle risorse impiegate per la fase di transizione ecologica dal calcolo del rapporto debito/PIL. Nella giornata di mercoledì 9 novembre 2022 ha ricordato la volontà di creare spazio a questi investimenti nella loro proposta, nella consapevolezza dell’importanza degli investimenti privati, ma ricordando la concomitante necessità degli investimenti pubblici soprattutto per i settori in cui il mercato, da solo, non arriverà. Tuttavia, nella gestione di questa travagliata e fitta agenda di crisi economiche, sociali e politiche, è ancora in dubbio la presenza di un adeguato spazio ed attenzione in merito a questo tema altrettanto emergenziale.
Davide Scialdone, associato in prova area Consulenza d’impresa
La transizione ecologica è una fase transitoria di trasformazione dei processi socio-economici legati al cambiamento della fonte predominante di energia. L’obiettivo fondamentale di tale fase è quello di dimezzare le emissioni di carbonio entro il 2030 e raggiungere il net zero entro il 2050. Risulta utile sottolineare che per raggiungere gli obiettivi sia necessaria la piena sinergia di tre elementi fondamentali: tecnologia, politica, mercato.
La trasformazione non vedrà al centro solo il cambiamento delle fonti di approvvigionamento, ma affronterà sfide ben più rigide. Tra le sfide primarie c’è la scelta del miglior energy mix possibile. Questa ottimizzazione non è semplice dato che il raggiungimento di un mix 100% rinnovabile non sembra essere la soluzione migliore data la scarsa densità energetica e il capacity factor delle stesse fonti. Ad esempio, la più grande sfida per l’energia solare è affrontare la sua c.d. “duck curve”, ovvero una curva che mostra come la domanda di energia risulti più alta nelle fasce orarie in cui l’offerta cala per via della natura intrinseca della fonte.
L’alta variabilità delle rinnovabili necessita di ingenti investimenti in ricerca per implementare i sistemi di accumulo e l’efficientamento per evitare sprechi di energia tramite le soluzioni odierne. La soluzione ottimale, al momento, sarebbe quella di considerare le fonti rinnovabili come un complemento energetico da integrare in un mix che contenga al suo interno anche fonti alternative di energia, come l’energia nucleare, che andrebbe ad equilibrare il sistema grazie a programmabilità, affidabilità e stabilità dei costi di produzione dell’energia. Il fattore comune tra tutti i mix dovrà comunque rimanere l’incentivazione della ricerca e l’educazione riguardo le fonti utilizzate.
Andando oltre le sfide a livello tecnologico, gli altri fattori sfidanti risiedono nella struttura stessa della società attuale. Bisognerà apportare cambiamenti tali da rivoluzionare i comportamenti umani e le assunzioni su cui poggiano la politica e l’economia moderna. D’altra parte, se questo risulta spaventoso, è utile ragionare su quanto più drastico e negativo sarebbe il cambiamento in caso di non adozione di soluzioni di efficientamento energetico. Sebbene la soluzione di una rivoluzione verde ben strutturata trovi benefici al costo di un adattamento sociale che risulterà difficile, il non ricercare soluzioni troverebbe applicazioni ben più gravi per il futuro … e questo sarebbe un prezzo troppo alto per tutti!
È importante che si persegua un modello educativo che metta al centro la sostenibilità per far sì che le nuove generazioni siano perfettamente integrate in un mondo più sano e pulito. Noi consumatori non dobbiamo sentirci impotenti di fronte a questo grande problema poiché siamo chiamati a dare il nostro contributo. Un metodo concreto per poter contribuire a salvaguardare il pianeta è la soluzione proposta da Treedom, piattaforma online che consente di piantare alberi in diversi paesi, offrendo ai clienti il monitoraggio della crescita della propria foresta. Grazie a Treedom vengono sviluppati progetti che portano all’assorbimento di centinaia di migliaia di tonnellate di CO2 e continua costantemente a contribuire all’ambiente ponendosi sempre nuovi obiettivi di sviluppo sostenibile.
Valerio Stracqualursi, Associato in prova Area Business Development.
Vivere in una grande città significa, per gran parte della popolazione, avere un tenore di vita sensibilmente migliore. Sentirsi soddisfatti e consapevoli di avere numerose prospettive di carriera nel proprio futuro, per uno studente, ma non solo, è una misura rassicurante. Nei tempi attuali, purtroppo, lo scenario di riferimento è completamente differente. Al giorno d’oggi, la vita in città risulta disagevole e stressante. I fattori scatenanti di questa insoddisfazione e frustrazione quotidiana sono diversi: recarsi a lavoro sapendo che la mattina il flusso del traffico si blocca per ore; trovare accumuli di rifiuti per le vie della città, che occupano le strade e rendono l’aria irrespirabile; vedere sempre più aree non pulite e poco curate, spazi verdi trascurati e mal gestiti e infrastrutture pubbliche fatiscenti e non funzionanti.
L’espansione incontrollata degli spazi urbani ed il suo conseguente inurbamento ha portato a forti problemi di natura organizzativa, rendendo le città invivibili, ed ha notevolmente incentivato la diffusione della criminalità e dell’illegalità, dell’emarginazione sociale, della solitudine dei malati, dei disabili e degli anziani. Le città, inoltre, consumano un’enorme quantità di energie e risorse non rinnovabili, causando forti danni all’ecosistema ambientale. Numerosi studi e previsioni sulle condizioni di vita future dipingono il medesimo scenario: nei prossimi anni servirà più cibo, più acqua e più energia, per una popolazione mondiale di 9 miliardi di persone e concentrate per il 70% nelle aree urbane.
In questo scenario, si è collocata l’esigenza di realizzare dei nuovi modelli di città, le cosiddette “città del futuro”, sostenibili, a misura d’uomo, che garantiscano ai loro abitanti servizi elevati ma che allo stesso tempo consumino meno risorse naturali e preservino l’impatto ambientale mantenendo l’inquinamento entro i limiti non dannosi per l’ecosistema terrestre. Da questa necessità è nato il concetto e lo sviluppo delle smart cities. Una smart city è un’area urbana in cui, grazie all’uso delle tecnologie digitali e, più in generale, delle innovazioni tecnologiche, è possibile ottimizzare e migliorare le infrastrutture ed i servizi ai cittadini, rendendoli più efficienti. Si basa sull’interconnessione di infrastrutture come energia, mobilità, produzione, telecomunicazioni, ambiente, ricerca e sviluppo, grazie a sistemi altamente digitalizzati come l’Internet of Things, la robotizzazione, il Machine Learning e la Big Data Analytics.
L’European Smart City Project ha elencato un programma secondo il quale, per essere definita smart city, una città deve essere caratterizzata da almeno una delle tipologie elencate: Smart Governance, Smart Economy, Smart Mobility, Smart Living, Smart People, Smart Environment. Tuttavia, una città non è intelligente solo se diventa più tecnologica, ma quando chi usa tale tecnologia è abile a coglierne le sue opportunità. I cittadini e gli amministratori di queste nuove organizzazioni dovranno mobilitare risorse ed energie per migliorare la cura dell’ambiente, la gestione della mobilità, la sicurezza, la salute e l’integrazione. La vera scommessa delle smart cities, quindi, si presenta sul lato sociale. Nuovi stili di vita, consapevolezza e sostenibilità cresceranno solo se si investirà sull’educazione e se si saprà comunicare con chiarezza che i comportamenti giusti potranno rendere vivibile il futuro.
Antonio Morabito, Associato in prova Area Business Development
Attualmente, la minaccia rappresentata dal cambiamento climatico svolge un ruolo fondamentale nello sviluppo, a livello mondiale, di una coscienza ecologica e nella diffusione dei principi dell’ecosostenibilità nell’immaginario comune.
Uno dei principali ostacoli ad una piena e consapevole svolta green è sempre consistito nell’apparente incompatibilità tra l’adozione di misure idonee a ridurre l’impatto ambientale delle attività umane e l’interesse economico degli operatori commerciali e industriali, che ha spesso portato all’adozione di politiche irriguardose nei confronti dell’ambiente.
Tuttavia, negli anni più recenti, la risposta alla domanda “Economia ed ecologia possono diventare due facce della stessa medaglia?” sembra tendere sempre più verso una direzione positiva.
In un clima ormai dominato dal fenomeno della Green Economy, le imprese hanno sentito la necessità di adottare un approccio più sensibile alle tematiche ambientali con l’obiettivo di mantenere, o addirittura accrescere, la loro competitività sul mercato. Consumatori e utenti sono, infatti, sempre più inclini a preferire prodotti e servizi che abbiano un impatto ambientale ridotto e che assecondino i principi di sostenibilità ecologica. L’effettiva adesione ai suddetti standard rimane, ad oggi, frutto delle politiche aziendali e commerciali adottate autonomamente da ciascuna impresa; è evidente, però, che l’orientamento del mercato e il diffondersi di determinate preferenze stiano condizionando le scelte imprenditoriali.
Dall’idea generale di Corporate Social Responsibility derivano, pertanto, una serie di impegni che si esplicano, tra l’altro, nell’adozione di processi produttivi non inquinanti ed ecosostenibili, nell’ottica di una maggiore compliance a livello sociale.
Questa evoluzione comporta che il normale ciclo economico tenda sempre di più verso un tipo di economia circolare che valorizzi l’utilizzo di materiali riciclabili e di energie rinnovabili.
Sia nel panorama nazionale, sia in quello internazionale, numerosissimi sono gli esempi di imprese che attualmente investono in prodotti e tecnologie a ridotto impatto ambientale e, tra queste, spiccano anche realtà come Google, Facebook e Microsoft che si fanno portavoce di questo importante e necessario processo. In particolare, a proposito di grandi colossi, si assiste alla diffusione dei Green Data Center, organizzati in modo tale da ridurre il notevole fabbisogno energetico richiesto per il funzionamento dei centri di elaborazione dati. D’altra parte, anche realtà di dimensioni più modeste si mostrano sensibili alla tematica ambientale a tal punto che numerosissime sono le start up volte a combinare il requisito dell’innovatività con l’obiettivo di uno sviluppo sostenibile e consapevole.
In conclusione, al giorno d’oggi, una collaborazione tra economia ed ecologia è sicuramente possibile ed auspicabile e si esplica perfettamente nelle Società Benefit. Queste ultime, nate negli Stati Uniti, sono caratterizzate da un peculiare oggetto sociale che integra il fine lucrativo e lo scopo di influire positivamente sulla società.
Il cambiamento che è in atto sta, dunque, modificando intrinsecamente il tessuto sociale ed economico del nostro pianeta, incidendo sul singolo in termini di maggiore responsabilità e consapevolezza proiettata in un presente, e soprattutto in un futuro, che non lasciano più spazio ad un approccio negazionista e disinteressato.
Francesca Matarrese, Associata Area legale