Fast fashion: innovazione o distruzione?

Vi è mai capitato di sentire il termine Fast Fashion? Anche in caso di risposta negativa, questo termine, vi risulterà più familiare di quanto possiate immaginare. Con esso si intende un ramo del settore moda che prevede l’immissione sul mercato di larghe quantità di capi, in brevissimi tempi e ad un prezzo economico.
Le aziende di Fast Fashion prendono spunto dalle tendenze del momento e da brand di alta moda, dando vita ad una moltitudine di collezioni. 

Per osservare la sua fioritura dobbiamo attendere la fine della Seconda Guerra Mondiale.
Durante gli anni 50’, la frequenza nell’acquisto di prodotti tessili provenienti dalle fabbriche aumentò.
In questi anni nascono coloro che poi sarebbero diventati in futuro, manifesto del fast fashion: H&M nel 1947, proponendo abiti alla moda e a prezzi bassi e successivamente, Zara nel 1975 realizzando copie economiche di capi di noti brand. Il termine fast fashion fu utilizzato per la prima volta dal New York Times, alle fine del 1989, in occasione dell’apertura di uno store Zara a New York. Da qui questo tipo di industria ha preso sempre più piede, creando negozi in tutto il mondo tra gli anni Novanta e Duemila. Questa nuovo modo di fare moda può essere visto come un processo di democratizzazione di essa, in quanto permette di vestirsi seguendo le tendenze ma a cifre modeste. Ciò, ha comportato un aumento degli acquisti e, soprattutto, ad un ampliamento della clientela, grazie ad un mercato più accessibile.

Ma come si può produrre in brevi lassi di tempo e vendere ad un prezzo stracciato? 

La risposta sta in un business model che prevede manodopera a basso costo, bassa qualità e produzione incessante. Di conseguenza, un gran numero di aziende ricorre alla tecnica dell’outsourcing, cioè l’esternalizzazione della produzione in paesi dove la forza lavoro ha un costo molto basso, ma lo sfruttamento e la mancanza di norme a tutela dei lavoratori sono protagonisti. 

Secondo una ricerca del Worker Rights Consortium (WRC) il salario medio di un operaio tessile è di 147$ al mese. Una remunerazione così esigua comporta l’assenza di norme e controlli di sicurezza. Risultato ne è stato, ad esempio, il crollo del Rana Plaza a Dacca, in Bangladesh, una fabbrica di otto piani, che ha causato la morte di 1129 persone e circa 2515 feriti. 

Il fast fashion impatta fortemente anche l’ambiente, con una filiera produttiva che di sostenibile non ha praticamente nulla. Il settore dell’abbigliamento si posiziona, infatti, al secondo posto dopo il petrolio come più grande elemento inquinante (secondo il “United Nations Environment Programme”).
Il settore tessile è responsabile di circa l’8-10% delle emissioni globali e del 20% della contaminazione industriale dell’acqua a livello mondo, secondo una ricerca di Nature Reviews Earth & Environment, 2018. 

Oltre ai grandi marchi di fast fashion, i responsabili siamo anche noi e il nostro modo di fare shopping. 

La tendenza compulsiva all’acquisto, dovuta ai bassi prezzi e alla obsolescenza panificata (la tendenza a far durare poco le mode) ha portato ad un overconsumption, ossia un consumo eccessivo. Diretta conseguenza ne è l’aumento di vestiti che devono essere smaltiti, sia dai singoli consumatori che dalle aziende in quanto capi rimasti invenduti: questo settore produce così più di 92.000 tonnellate di rifiuti tessili annue.  

Ma come si può definire il fast fashion un processo di democratizzazione, in mancanza di sostenibilità sociale e ambientale? 

 

Sofia Fusari, Associato Senior Area HR&Audit 

Livia Lamaro