Gli affari d’oro delle compagnie di trasporto marittimo durante la pandemia

Singhiozzo. Si potrebbe definire così la realtà dell’economia del periodo pandemico. Da gennaio del 2021 la quotazione corrente per un container spedito dall’Asia negli Stati Uniti ha superato i ventimila dollari, mentre pochi anni fa era inferiore ai duemila dollari. I noli dei container hanno subito un incremento del 600% in due anni.

Il trasporto marittimo costituisce il 90% del trasporto internazionale di merci e i principali vettori marittimi gestiscono più di due terzi del traffico via mare. Se fino allo scoppio della pandemia il mercato marittimo era in una situazione di relativa stabilità, segnata da una crisi durata un decennio, adesso assistiamo al fenomeno opposto. Gli spedizionieri marittimi hanno raggiunto la posizione più solida della loro storia, incassando profitti intorno ai 150 miliardi di dollari, superiori a quelli accumulati negli ultimi 20 anni. 

Con l’epidemia il traffico merci si è arrestato, questo ha portato le compagnie a optare per sistemi di aggregazione per condividere costi e rischi, unendosi in tre grandi alleanze: 2M, Ocean Alliance e The Alliance. Un sostanziale oligopolio, per ottimizzare carichi, tragitti e tempistiche riducendo le rotte, il numero dei porti, condividendo lo spazio a bordo delle navi e privilegiando i cargo più capienti. Una situazione che aggira anche la legge antitrust europea e statunitense. La tendenza delle alleanze a modificare liberamente il sistema ha creato un forte squilibrio nel meccanismo che regola i prezzi. I prezzi dei noli sono così aumentati a dismisura, raggiungendo incrementi stellari.

Ciò che bisogna considerare è che in realtà la pandemia ha semplicemente “messo a nudo” una situazione di dissesto e inadeguatezza strutturale dei porti. In particolare, il sistema logistico presentava già una condizione critica, determinata da forti squilibri a livello di volumi di scambi. Un crescente divario tra i volumi di merci diretti verso Unione Europea e USA, e quelli aventi come destinazione il continente asiatico. Un sistema logistico che, a sua volta, deve far fronte alla sempre maggiore difficoltà di gestire cargo sempre più grandi e porti con scarsa capacità di stoccaggio.

Uno dei fattori determinanti dell’aumento dei costi di trasporto è dato dalla scarsa disponibilità di container causata dalla lunga stasi produttiva dell’ormai unico produttore globale di container, la Cina. La produzione si è fermata per quasi un anno a causa dell’assenza di domanda. Una volta ripartita la domanda, i costi delle materie prime si sono alzati e di conseguenza anche i prezzi dei container hanno subito un rialzo fortissimo.

Questa complessa situazione ha provocato anche grossi ritardi, ormai sistematici, in tutta la catena di approvvigionamento delle merci, con una puntualità delle navi che dall’80% è crollata al 35%. Ritardi dovuti alla congestione dei porti, per il boom di traffico post-lockdown e per le operazioni di controllo legate alla pandemia che rallentano il carico e scarico. Inoltre, è comparso il fenomeno del blank sailing, ovvero la cancellazione dello scalo nel porto congestionato, lasciando a terra container già pronti per essere caricati.

La Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo sostiene che se non si interviene nel risolvere le congestioni che stanno interessando i porti e nel calmierare il prezzo dei noli marittimi,  il rincaro delle materie prime e dei costi di trasporto è destinato ad influire sui prezzi al dettaglio dei beni almeno fino al 2023.

Sofia Procucci, associata in prova Area Business Development

Elena Morelli