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La questione del merito.

In una società figlia di un mercato del lavoro sempre più competitivo ed esigente, la questione del “merito”, tanto in ambito descrittivo, quanto in ambito normativo, assume una rilevanza fondamentale. 

La prima domanda che si pone è di natura ontologico-definitoria. È necessario cioè chiedersi cosa sia, in forma ed in sostanza, il merito. Per risolvere tale problema è essenziale impiegare il termine proprio, che non è “merito”, in questo caso, ma “meritocrazia”: il centro della disputa non sta nell’esistenza, o nella possibilità dell’esistenza, di un rapporto di causa-effetto tra il giudizio esterno oggettivo (1) sulle azioni degli individui e la determinazione di una gerarchia sociale, quanto piuttosto nella legittimità di tale processo attributivo. Dunque, una definizione a mio parere sufficientemente coerente ed esaustiva potrebbe essere questa:

“La meritocrazia è un sistema di costituzione della gerarchia sociale, e dunque dei privilegi e degli oneri da essa derivanti, determinato dal giudizio esterno oggettivo sulla condotta degli individui che la compongono”

Alcune note a riguardo:

  1. Per giudizio esterno oggettivo si intende la valutazione etica, economica, politica, giuridica che un insieme di individui dà della condotta dei propri componenti. Si impiega il termine oggettività nel senso di soggettività valoriale condivisa e codificata, relativa dunque alla natura ed alla cultura dell’insieme di riferimento, e non assoluta.
  2. Proprio a tal proposito è opportuno ricordare che il “merito” non ha un contenuto aprioristico, bensì storicamente costituito (pensiamo per esempio all’abilità militare, che è stata spesso e variamente associata nella storia alla selezione della leadership politica, e che ha oggi in tale ambito un ruolo nullo).

 Le domande che si pongono ora sono fondamentalmente due: 

a) Se sia, in primis, eticamente legittimo impiegare un sistema meritocratico nell’organizzazione della società; 

b) Se, nella società contemporanea, i valori e dunque i parametri attraverso i quali si determina cosa costituisca il merito a livello qualitativo, e come esso possa essere “misurato” a livello quantitativo, siano effettivamente “giusti”. 

In entrambi i casi non vi è una risposta univoca ed oggettiva, ma solo una ragionata interpretazione induttiva delle molteplici forme di organizzazione sociale che si sono susseguite nella storia. Il primo dato di interesse è che, probabilmente, società completamente non meritocratiche non sono mai esistite. Persino i sistemi di “nobiltà di spada” avevano al loro interno una sorta di fisiologico correttivo meritocratico: tante casate nobili sono sorte dal nulla, e nel nulla ripiombate. Per quanto, infatti, l’aristocrazia sia per definizione una classe sociale cristallizzata (sebbene molti siano i casi nella storia di famiglie in origine umili divenute poi nobili: in primis i Medici), esiste al suo interno un meccanismo selettivo, che nei secoli ha premiato alcune dinastie, e sradicato molte altre (basti pensare alla fine della Corona francese, ed alla strenua sopravvivenza di quella inglese). 

Ma quali sono i vantaggi di un sistema feudale, di un sistema cioè con una classe dirigenteruling class virtualmente inamovibile? Senza dubbio la stabilità, che ne è però anche il più grande difetto genetico. Una società senza ricambio della classe dirigente tende ad essere refrattaria al cambiamento, alla crescita economica, al proliferare dell’innovazione culturale. Per quanto la figura del monarca illuminato potrebbe apparire come una notevole eccezione, è pur vero che nel Seicento e nel Settecento europeo, epoca di maggior fioritura dell’assolutismo, i sovrani tesero a poggiare la propria azione di riforma non sulla nobiltà di spada, ad essi teoricamente più affine, ma sulla nascente borghesia, e soprattutto sull’apparato statuale che essa aveva contribuito in modo determinante a formare. Dunque, gli ultimi grandi sovrani ereditari d’Europa regnarono per conto e negli interessi in primis dei borghesi, quelli che invece rimasero ancorati ai poteri dell’ancien regime, come dimostra la rivoluzione inglese, e ancor di più quella francese, finirono per perdere la propria autorità, o per essere spazzati via. 

Questo meccanismo fisiologico di selezione, che agisce persino nel caso di civiltà la cui gerarchia sociale abbia al vertice la nobiltà, è senza dubbio ancor più essenziale nelle società borghesi. Per trattare il tema è forse necessario fare un passo indietro e chiedersi perché esistano gerarchie all’interno della massima parte delle formazioni sociali sorte nel corso della Storia. La risposta risiede in un dato economico, anzi, forse nel dato economico per eccellenza: la limitatezza delle risorse. Se ogni bene e valore fosse immediatamente accessibile a tutti, senza alcuna difficoltà o prezzo, forse la società per come la conosciamo non sarebbe mai venuta in eEssere. E, generalmente, meno sono le risorse, più rigida è la gerarchia (anche se chiaramente non si tratta di una regola generale, quanto più che altro di una tendenza spesso suffragata, spesso contraddetta).  Il potere, nella sua forma più pura, è, dunque, potere di gestire risorse (umane, economiche, militari). E l’obiettivo primario di ogni società è la conservazione di sé stessa, in quanto l’esistenza è il presupposto di ogni altro obiettivo potenzialmente perseguibile. Per garantire la sopravvivenza è condizione necessaria ma non sufficiente che le risorse vengano gestite abbastanza bene da non comportare l’estinzione. Ovviamente ogni forma di società ritiene di impiegare le proprie risorse ottimamente: la storia ci dimostra che non è mai così. 

Come e perché le società definiscano le gerarchie che le determinano in uno specifico modo è argomento troppo ampio, che esula dall’ambito che si sta trattando, eppure un dato rilevante è che la maggioranza di esse abbia scelto un modello di diseguali. Una diseguaglianza sviluppata su due piani: quello “Privato” (le risorse di cui materialmente dispone un individuo per soddisfare i propri bisogni in funzione delle utilità che persegue) e quello “Pubblico” (il potere, attribuito ad un individuo, di disporre di risorse collettive nell’interesse generale). E, nel solco segnato da ormai pacifiche interpretazioni dottrinali, sarà opportuno denominare questo “potere privato”, “potere” in senso stretto, e questo “potere pubblico”, “potestà”. Chiaramente la distinzione tra i due è a dir poco labile: il potere sconfina spesso nella potestà, e la potestà si trasforma spesso in potere.  Persino gli stati astrattamente più egualitari della Storia, quelli socialisti del Novecento, furono strutturalmente piramidali, nonostante una diffusa quasi-uguaglianza sostanziale;, sebbene tale gerarchia sociale non fosse determinata dalla capacità di produrre ricchezza (come nel tipico modello borghese) quanto piuttosto dalla capacità di amministrare e governare le complessità di un apparato partitico-burocratico ipertrofico.

Se è forse immaginabile un mondo in cui tutti vivano degli stessi mezzi, o meglio dei mezzi che equitativamente siano adeguati alla conduzione dignitosa della loro esistenza, è invece a mio parere sostanzialmente inconfigurabile un mondo in cui tutti abbiano la stessa potestà. È impossibile realizzare una costante assemblea universale, un’“incondizionata democrazia di tutte le cose”: troppe sono le difficoltà, troppe le complessità, troppe le ignoranze. Tra la sovranità costituzionale della volontà popolare, e l’effettivo processo decisionale, è necessaria la stabilità mediatrice dello Stato, e della rappresentanza democratica. Questo perché, soprattutto nella nostra sempre più complessa e specifica contemporaneità, le competenze necessarie a prendere decisioni di interesse generale in determinati ambiti, sono divenute sostanzialmente inacquisibili se non tramite lunghi percorsi di studio ed iper-specializzazione.  Alcune crisi, come quella pandemica, si sono potute e si possono affrontare solo in virtù di apparati statuali e privati il cui paradigma organizzativo è, o almeno dovrebbe essere, fondamentalmente quello meritocratico. È d’altronde autoevidente che i problemi vadano affrontati da coloro i quali siano più naturalmente predisposti e positivamente educati a risolverli. Eppure, tale principio sembrerebbe essere contraddetto dalla prassi elettorale, che non fa della capacità amministrativa il fulcro della figura dell’uomo politico, ma tende a prediligere invece l’abilità nel raccogliere consenso, spesso completamente slegata dalla prima.  Lo spesso zoppicante “merito” della classe politica viene ad essere spesso compensato dall’efficienza dell’apparato statuale.  Il politico democraticamente eletto dovrebbe, nella contemporaneità, avere l’intelligenza di non esercitare una potestà arbitraria, ma di dirigere e gestire, secondo i valori etici delle parti sociali che rappresenta, la complessità della macchina amministrativa, attraverso le competenze e le procedure ottimizzate che essa ha nel tempo elaborato. In sostanza, il “controllo di qualità” che l’elettorato opera sulla classe politica, è ormai esercitato solo attraverso la “rimozione” (ossia la mancata riconferma) e non attraverso un controllo preventivo (la cui genuinità è spesso viziata dall’invasività dell’elemento umano (la “simpatia”) e delle strategie comunicative).  

Nell’avvicinarsi alla conclusione, è opportuno, dopo aver osservato l’oggettiva difficoltà di configurazione di un sistema di gestione delle risorse non meritocratico, enumerare anche i problemi strutturali che ostacolano il pieno inverarsi della meritocrazia stessa. È impossibile, se non colpevole, ignorare che al mondo non nasciamo tutti con loe stesse possibilità. È certo più facile studiare quando puoi permetterti i libri di testo, più facile essere indipendenti quando hai come pagare l’affitto, più facile seguire le proprie aspirazioni quando un part time non è l’unica cosa che ti separa dalla strada. È dovere della Repubblica rimuovere integralmente tali ostacoli, rendendo lo studio sostanzialmente accessibile e sostenibile per tutti. L’istruzione, dalle elementari all’università, è, e dovrà essere sempre più, il massimo strumento di giustizia sociale a disposizione dello Stato, un ascensore che sollevi i capaci e i meritevoli.  Eppure, si potrebbe dire che ciò non basti. Che chi nasca meno talentuoso, meno adatto alla competizione, non debba avere meno possibilità di arrivare all’apice delle varie strutture sociali. È forse un punto di vista sostenibile dal punto di vista etico, ma difficilmente concretizzabile.

Tancredi Bendicenti, associato in prova Area Legale.

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