Il QE come risposta alla crisi nei mercati emergenti: rischio o strategia vincente?

 

Utilizzato originariamente in Giappone all’inizio degli anni 2000, e adottato negli Stati Uniti e in Europa in seguito alla crisi finanziaria del 2008, il QE, con l’attuale crisi del coronavirus, sta assumendo una dimensione globale, diffondendosi anche nei mercati emergenti.

Ma procediamo con ordine: cosa si intende nello specifico quando si parla di quantitative easing? Esso altro non è che l’acquisto diretto da parte di una Banca Centrale di titoli e strumenti finanziari su mercati secondari con moneta di nuova creazione. Attraverso tali acquisti la banca centrale cerca di ridurre, fin quasi ad annullare, tutti i tassi di interesse, fornendo così un forte stimolo all’attività economica.

Opinione largamente diffusa è che questa sia sicuramente il tipo di “indulgenza” che è meglio lasciare ai paesi ad economia avanzata. Dopotutto, le banche centrali dei mercati emergenti hanno passato decenni a cercare di prendere le distanze dai governi cupidi e di dimostrarsi caute amministratrici dell’offerta di moneta. La risposta messa in atto dai mercati emergenti alla pandemia covid-19 ha, quindi, sollevato non poche perplessità. 

Eppure non si tratta di casi isolati, anzi, stando ai dati del FMI sarebbero almeno 18 i paesi che hanno e stanno attuando programmi di acquisto di attività di qualche tipo, sperimentando delle proprie versioni di QE: la Colombia è diventata il primo paese latinoamericano a sperimentare il QE a marzo, seguito da un piano cileno per acquistare fino a 8 miliardi di dollari di obbligazioni, pari al 3 per cento del reddito nazionale del paese; la Banca del Ghana ha acquistato un “prestito obbligazionario covid-19” del valore di 5.5 miliardi di cedi (950 milioni di dollari) dal governo a Maggio per contribuire a colmare il suo deficit di finanziamento. Nelle Filippine, Rosalia de Leon, tesoriera nazionale, ha descritto gli acquisti della banca centrale come una “ancora di salvezza” per il governo e, ancora, il ministro delle finanze indonesiano, Sri Mulyani Indrawati, ha dichiarato questa settimana al Financial Times che il paese continuerà con politiche di allentamento per tutto il tempo necessario.

Contrariamente ad alcuni timori, finora tutto questo non ha portato al disastro: non si sono ancora presentate crisi di debito e le curve dei rendimenti locali stanno, seppur lentamente, crescendo. Le prime prove suggeriscono dunque che abbia funzionato abbastanza bene. Ma se queste spese folli sono state utili, la domanda sorge, allora, spontanea: le banche centrali dovrebbero farne un’abitudine? 

La risposta a questa domanda risiede in una sola parola: il contesto. La pandemia che stiamo attraversando ha infatti creato circostanze eccezionali. Gli investitori potrebbero reagire in modo diverso a incursioni più ampie e di routine nel mercato obbligazionario. Le banche centrali dovrebbero anche considerare cosa possono acquistare gli investitori privati. Se i mercati di un paese offrono poche alternative ai titoli di stato, la banca centrale potrebbe inavvertitamente spingere gli investitori fuori del tutto dalle attività del paese. Le politiche non convenzionali aiutano solo se le banche centrali sono credibili. Il criterio chiave, infatti, è mantenere la fiducia degli investitori nazionali risultando credibili sul fatto che il debito nazionale non verrà gonfiato.

Se gli investitori abbandonassero la valuta locale, la vita diventerebbe ancora più dura per i paesi che sono già vulnerabili agli shock esterni.

 

Elena Maria Lazzarini, Associato in prova Area BD

Mauro Campus