

Negli ultimi anni Apple ha dominato la classifica mondiale delle aziende con maggiori profitti. Tuttavia ad aprile di quest’anno ha dovuto cedere il primato a causa della pubblicazione, per la prima volta dalla sua nazionalizzazione nel 1976, del giro di affari di Saudi Aramco. L’azienda è infatti la compagnia petrolifera di proprietà del governo dell’Arabia Saudita ed attualmente la più grande al mondo con profitti pari a 111.1 miliardi di dollari.
Nel mese di aprile, inoltre, la compagnia ha emesso per la prima volta bond per 12 miliardi di valore nominale, raccogliendo un bacino di ordini quasi dieci volte più capiente, pari a 100 miliardi.
Può questa enorme quantità di capitale raccolto da Saudi Aramco, unita ai ricavi generati nel 2018, essere un segno della volontà dell’azienda di espandersi ulteriormente o di diversificare il proprio business?
Storicamente, l’industria petrolifera nacque negli Stati Uniti nella seconda metà dell’800 e si espanse notevolmente con la diffusione del motore a combustione interna.
L’industria si mostrò perciò sin da subito legata indissolubilmente al settore automobilistico e mantenne sempre una struttura oligopolistica, favorendo grandi imprese come la Standard Oil e più tardi la Exxon Mobil.
Solamente nella seconda metà del secolo scorso, attraverso anche la fondazione dell’OPEC, l’Arabia Saudita, unica proprietaria di Saudi Aramco, si è imposta come uno dei paesi leader dell’industria petrolifera. Attualmente, infatti, l’Arabia Saudita possiede il 25% del totale stimato delle riserve del petrolio mondiale ed attraverso l’estrazione del greggio lo Stato riesce ad autofinanziarsi.
La strategia di Saudi Aramco coincide perfettamente con il business model delle aziende che producono energie non rinnovabili: generalmente, infatti, le compagnie petrolifere sono costrette ad accumulare grandi quantità di capitale da investire nella costruzione di strutture che permettano l’estrazione ed il trasporto del greggio. Superati questi costi fissi importanti, tuttavia, le aziende incorrono in costi variabili di valore nettamente inferiore, che permettono di mantenere alta la produzione di barili e generare, con delle condizioni dei mercati favorevoli, enormi ricavi. Tuttavia, i profitti realizzabili nell’industria petrolifera dipendono molto dal prezzo del petrolio sui mercati e dall’andamento dei settori che utilizzano i derivati del greggio come combustibile.
Il governo saudita, comprendendo le debolezze dell’industria petrolifera e le nuove tendenze dei consumatori verso fonti di energia che riducano inquinamento e effetto serra, sta tentando di disegnare un futuro diversificato per Saudi Aramco. Come prossimo mercato da aggredire si dirigerà, come affermato dallo stesso CEO, verso quello del gas naturale liquefatto.
Questo combustibile fossile porterebbe Saudi Aramco ad applicare un business model molto simile a quello attuale, data l’estrema somiglianza con il petrolio: basti pensare infatti che entrambi sono estratti da riserve naturali e possono essere trasportati globalmente su apposite navi.
Alla luce di questi eventi, perciò, la riflessione che sorge spontanea è che le grandi compagnie energetiche che attualmente seguono l’esempio di ENEL investendo in fonti di energia rinnovabili sono molto poche e che l’esempio di Saudi Aramco mostra quanto il business model dell’energia fossile, pur essendo nato nell’800 e perciò scarsamente innovativo, sia tuttora solido ed altamente redditizio.
Daniele Stoia
Associato in prova Consulenza Finanziaria