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La Red Bull è l’esempio perfetto di come del marketing geniale possa portare un’azienda con un singolo prodotto a fatturare oltre 6,067 miliardi di euro (2019).
La Red Bull nasce nel 1982, quando un uomo di affari dal nome di Dietrich Mateschitz, a seguito di un volo Vienna-Bangkok, riesce a sconfiggere gli effetti del fuso orario grazie ad una bevanda energetica locale il quale nome tailandese si traduce in “toro rosso”. Al suo ritorno in Austria Dietrich tentò di riproporre la bevanda ad investitori locali i quali non credettero né in lui né meno che mai nel prodotto, il quale sarebbe stato difficilissimo da collocare all’interno del mercato. Dietrich, con l’aiuto del proprietario della bevanda Tailandese, decise quindi di creare un nuovo mercato in Europa nel quale collocarsi: quello delle bevande energetiche. Dopo aver finalizzato il gusto della bevanda, il prodotto finale venne lanciato localmente nel 1987 con un successo iniziale di oltre un milione di vendite nel primo anno.
Alla ricerca di espansione, la Red Bull sbarcò nel 1994 in Inghilterra dove trovò un mercato più competitivo. La carenza di domanda del prodotto incentivò l’azienda ad investire la maggior parte del capitale a disposizione nel marketing in un epoca in cui la pubblicità costava molto e rendeva poco. Ma come si fa a pubblicizzare un prodotto appartenente ed un mercato inesistente? Il team marketing di Red Bull decise quindi di manipolare la percezione del loro target creando una finta domanda di prodotto con una strategia di marketing ora nota come il “trash can marketing”.
Dopo aver individuato il target ideale per la bevande energetiche ovvero giovani energetici tra i 18 e i 30 anni di età, la Red Bull iniziò a riempire i bidoni della spazzatura londinesi fuori dai locali con lattine vuote del loro prodotto. Oltre ai bidoni della spazzatura vennero riempiti i tavolini delle discoteche, banconi dei bar e cestini di eventi sportivi. Questo creò nel target il fenomeno psicologico noto in inglese come FOMO (fear of missing out), definito dall’accademia della Crusca come la ‘paura di essere tagliati fuori, estromessi da un evento o un’esperienza piacevole’. Questo portò ogni individuo a credere di essere “l’unico a non averla ancora provata”. La domanda aumentò drasticamente. In economia questo effetto è anche noto come effetto carrozzone o istinto di gregge che, in questo caso, risultò particolarmente efficace grazie alla giovinezza e curiosità del target.
Negli anni la Red Bull continuò ad incrementare gli investimenti nel marketing, ispirando diverse aziende (quali la Monster) e stravolgendo il mondo del content marketing. Grazie alla loro produzione mediatica e atleti sponsorizzati riuscirono a trasmettere storie ed emozioni rimpiazzando la tecnica di storytelling con quella di Story Performing, portando i milioni di spettatori ad associare i meriti delle fantastiche performance di atleti Red Bull alla bevanda energetica. Un esempio di questo è Felix Baumgartner, paracadutista e daredevil Austriaco il quale grazie alla Red Bull riuscì nel 2012 a battere il record mondiale di paracadutismo lanciandosi dallo spazio. Lo stunt costò oltre 50 milioni di dollari ma il guadagno è stato stimato essere circa 6 miliardi di dollari (tra vendite mediatiche e prodotti venduti grazie al marketing).
Grazie a queste strategie di marketing innovative la Red Bull arrivò nel 2019 a vendere 7,5 miliardi di lattine: una lattina di prodotto per ogni persona sulla terra, gestiscono due squadre di Formula 1, cinque squadre di calcio ed una squadra di Hockey su ghiaccio, per non parlare di tutti gli atleti ed eventi che sponsorizza. Le strategie marketing Red Bull avrebbero messo le ali a qualsiasi prodotto.
Lorenzo Terrone, associato area Marketing.
Sostenibilità e crescita: potremmo riassumere il significato e gli obiettivi della transizione ecologica e del Patto di Stabilità e Crescita in queste due semplici e significative parole. Ancor prima di evidenziare gli imprescindibili legami tra questi ultimi è doveroso descriverne le caratteristiche e la natura.
Nel lungo processo di integrazione europea iniziato nel dopoguerra, il Patto di Stabilità e Crescita rappresenta uno dei più determinanti Pilastri e vincoli tra i Paesi che hanno scelto di intraprendere un percorso più che mai comune: la moneta unica. Possiamo, inoltre, affermare che sia uno dei documenti maggiormente discussi e decisivi per i risvolti economici degli Stati adottivi. Il patto è stato stipulato e sottoscritto nel 1997, per rinforzare il programma di convergenza del Trattato di Maastricht del 1992. Le successive modifiche e revisioni, soprattutto nel 2011 con il Six Pack, hanno sempre avuto come protagonisti e focus delle analisi i famosi parametri del 60% del rapporto debito/PIL e 3% cel rapporto deficit/PIL. Ciò che più è stato al centro dell’attenzione negli anni sono stati i criteri di definizione di questi parametri, che da molti studiosi sono stati definiti sbagliati ed inventati: grazie al quotidiano francese “Aujourd’hui” si è scoperto che il 3% fu inventato da un funzionario del dipartimento del bilancio al Ministero delle Finanze francese, Guy Abeille, poiché rappresentativo della Trinità e regola semplice da imporre ai ministri che frequentemente richiedevano finanziamenti. Per quanto riguarda il 60%, dei ricercatori dell’Università del Massachusetts hanno riconosciuto come sia figlio di errori nel foglio Excel durante lo studio della correlazione tra debito e crescita.
Possiamo, quindi, immediatamente comprendere come sia stato tema e motivo di molteplici politiche economiche, nonché di scelte dei vari Governi italiani un tale vincolo per l’adozione della moneta unica, soprattutto in considerazione dell’alto rapporto debito/PIL che contraddistingue la storia economica dell’Italia. Quando, poi, determinati vincoli possono entrare in contrasto e mettere in seria difficoltà molteplici Stati nel raggiungimento di obiettivi ed agende comunitarie e non, si apre il dibattito: è ciò che sta accadendo in questa fase autunnale di politica comunitaria.
La crisi causata dal Covid, iniziata nel 2020 ha fin da subito messo in discussione la possibilità di rispettare tali parametri a fronte della necessità dei Paesi dell’Unione di dover accedere a fondi comuni di finanziamento, accrescendo il debito, per fronteggiare una difficile crisi. Ciò ha portato alla sospensione del rispetto dei criteri del Patto, i quali però dovranno essere reintrodotti.
Nonostante tale crisi, non si può tuttavia trascurare l’importanza degli impegni assunti dagli Stati membri delle Nazioni Unite con i 17 obiettivi Agenda 2030, gli SDGs (Sustainable Development Goals): un’agenda di obiettivi adottata nel 2015 che trova nel decennio 2020-2030 il periodo per raggiungere i risultati posti nel combattere la povertà, ridurre il gender gap e far fronte all’emergenza climatica. In questo contesto si inseriscono i fondi minimi da dedicare al Next Generation EU all’interno del Recovery Fund.
Tenendo, perciò in considerazione tutti questi fattori, il Commissario europeo per gli affari economici e monetari della Commissione Paolo Gentiloni aveva già annunciato da mesi la necessità della revisione del Patto di stabilità e crescita.
In data 9 novembre 2022 vi è stata la presentazione delle proposte, che è importante preannunciare, non prevede la modifica dei due famosi parametri. Tuttavia, nella proposta, si trova l’importante affermazione nella volontà di andare oltre e non tenere più in considerazione l’obbligo per i Paesi eccedenti il 60% del rapporto debito/PIL di diminuire il surplus di un ventesimo l’anno, poiché ritenuto un criterio “non realistico”. Nel mentre, gli Stati avranno la possibilità di stipulare un piano con un percorso di riduzione del debito dai 4 ai 7 anni, ma “…se un Paese propone un piano, lo negozia, viene approvato ed è realistico con un livello di riduzione molto graduale, penso non solo sia giustificato ma anche necessario che in mancanza di questo ci siano delle procedure”, ha dichiarato Gentiloni. In merito a questo, la proposta non prevede la rimozione della procedura per deficit eccessivo, che verrà rinforzata in caso di deviazione del percorso concordato sulla riduzione del debito, con possibile sospensione dei fondi del PNRR.
Gentiloni ha anche recentemente parlato, in considerazione degli obiettivi internazionali e dei vincoli in tema di debito, della possibile valutazione di una scissione delle risorse impiegate per la fase di transizione ecologica dal calcolo del rapporto debito/PIL. Nella giornata di mercoledì 9 novembre 2022 ha ricordato la volontà di creare spazio a questi investimenti nella loro proposta, nella consapevolezza dell’importanza degli investimenti privati, ma ricordando la concomitante necessità degli investimenti pubblici soprattutto per i settori in cui il mercato, da solo, non arriverà. Tuttavia, nella gestione di questa travagliata e fitta agenda di crisi economiche, sociali e politiche, è ancora in dubbio la presenza di un adeguato spazio ed attenzione in merito a questo tema altrettanto emergenziale.
Davide Scialdone, associato in prova area Consulenza d’impresa
Il processo pubblico nasce al fine di evitare processi segreti, rendendo noto ai cittadini il procedimento che antecede la condanna. Inizialmente, si lasciava aperta la partecipazione lasciando che gli interessati entrassero in aula ad assistere; è dalla fine del secolo scorso che l’idea è diventata più vasta, permettendo ad un pubblico sempre più vasto di assistere, dal comodo divano di casa propria, alle vicende che si svolgono in un’aula di tribunale. L’idea di poter trasmette in televisione una faccenda così delicata, però, è ancora molto discussa. Ad oggi gli studiosi si sono interrogati sull’influenza che questo fenomeno ha sugli spettatori, sulle parti del processo e, soprattutto, sull’ordinamento giuridico generale su cui i processi stessi si poggiano.
A favore di tale fenomeno è sicuramente l’ordinamento statunitense, tra i primi a garantire questo tipo di accesso ai suoi cittadini, rendendo pubblici i processi che interessano maggiormente i telespettatori. A sostegno della tesi vi è l’idea che, rendendo noto lo svolgimento di un processo, i cittadini possano avere più fiducia nel sistema, nell’utilizzo delle corti giudiziali e che i crimini diminuiscano. L’idea è che, tramite i processi in diretta televisiva, nasca nei cittadini la sicurezza che i tribunali lavorino e che siano giusti, allo stesso tempo dipingendo i criminali in luce ancora più negativa rispetto all’immagine già scura derivante dall’opinione pubblica. Alla base, quindi, vi è proprio la convinzione che, tramite questo metodo di diffusione di massa, i cittadini si sentano maggiormente coinvolti nell’amministrazione della giustizia. Lo stesso motivo che ha spinto l’Italia, alla fine del XX secolo, a mandare in onda il Maxiprocesso contro la Mafia, o i processi di Tangentopoli. A confermare questa ipotesi, alcuni studi, apportati su piccoli gruppi, hanno registrato un’incrementale conoscenza dell’ordinamento giuridico nei soggetti che hanno assistito a processi in diretta TV. Ad accompagnare questi dati positivi, lo studio ha reso nota anche la crescente delusione degli spettatori, che denunciavano la lentezza, lunghezza e i tecnicismi dei processi, bollandoli come ‘noiosi’.
Ad alimentare questa convinzione sono i programmi televisivi ambientati nelle aule di tribunale, in cui i processi sono svelti, divertenti e brevi; tranello in cui cadono in molti. Questo ha finito per contaminare anche l’intero processo della messa in onda dei processi, rendendoli delle copie più realistiche delle serie TV seguite dal pubblico al fine di accrescere la popolarità di determinati canali televisivi. Si può infatti notare come, negli ultimi anni, i programmi statunitensi che trasmettono processi in diretta TV siano aumentati in maniera esponenziale, arrivano anche a diffondersi su diversi social media.
Inoltre, bisogna tenere presente come questi programmi tendano ad influenzare molto l’opinione pubblica, aizzando i cittadini contro il convenuto e facendo spettacolo della sua vita. Molti programmi, soprattutto quando si tratta di processi penali, si concentrano sulla sua figura, seguendola per l’intera durata del processo. Nella mente degli spettatori, questo aumenta la convinzione di colpevolezza del soggetto e contamina il principio costituzionale dell’‘innocente fino a prova contraria’, finendo per convincere i cittadini, a priori, della colpevolezza dell’imputato.
Il rischio maggiore, comunque, rimane quello di influenzare la giuria ed i testimoni. Con un’opinione pubblica così fortemente affermata, telecamere puntate su di sé, il rischio è elevato. Molti studi hanno infatti rilevato come questo fenomeno porti a dare spettacolo di sé, quasi si trattasse di un provino cinematografico o come se le parti fossero star televisive, finendo per trasformare il processo in un grande spettacolo. Basti tenere presente il caso Depp vs Heard, in cui anche gli avvocati erano tenuti sotto il mirino del pubblico, finendo per diventare popolari e protagonisti dei feed di tutti i social media. Il rischio è proprio che, in questo modo, non si abbia solo una contaminazione del processo, ma che si vada anche a ridicolizzare l’intero sistema.Il problema fondamentale rimane proprio la fragilità, la debolezza e l’estrema malleabilità della mente umana e, soprattutto, la voglia delle big corporation di profittare proprio da questo. E come tutto, il fenomeno rimarrà in crescita finché lo vorrà il pubblico.
Flavia Gatti, associato in prova Area Legale.
La valutazione di un investimento sostenibile oggi tiene in considerazione non solo i criteri economico-finanziari, ma anche quanto l’azienda è sensibile ai fattori ESG, ovvero i parametri che indicano l’attenzione alle tematiche ambientali (E), sociali (S) e relative alla governance (G). In particolare, per finanza sostenibile si intende un modello di intermediazione finanziaria la cui allocazione delle risorse ha come obiettivo quello di consentire alla generazione presente di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri.
Oggi, dunque, il topic della sostenibilità è ampiamente discusso e gli investitori sono molto sensibili al tema e sempre più propensi ad acquistare prodotti “green”. Il problema emerge, però, quando le aziende sono guidate da manager che nascondono attraverso un marketing ecologico di facciata azioni che in realtà sono ben lontane dall’essere sostenibili. Questo fenomeno è conosciuto come “greenwashing” e significa letteralmente “dissimulare il verde”.
Tra i più recenti casi di greenwashing nel sistema finanziario ne è protagonista il gruppo DWS (filiale di asset management di Deutsche Bank). Le indagini contro la società di investimento sono iniziate nell’agosto 2021 in seguito ad una pubblica accusa da parte dell’ex responsabile della sostenibilità della società. Infatti, la società dichiarava nel suo rapporto annuale del 2020 più della metà dei 900 miliardi di dollari di patrimonio investiti in prodotti sostenibili. Questa stima, secondo la whistleblower Desiree Fixler, risultava essere fortemente eccessiva. Infatti, in realtà solo una frazione più limitata seguiva i parametri ESG. Questo scandalo ha portato sia la SEC statunitense che la BaFin (autorità federale di vigilanza finanziaria tedesca) ad avviare un’indagine, dalla quale ne rimase poi coinvolta anche Deutsche Bank che, negli ultimi anni, è stata già oggetto di diversi scandali finanziari. Contemporaneamente DWS, che inizialmente negò fermamente le accuse, modificò nel rapporto del 2021 i miliardi “ESG-integrated” da 450 a soli 115. Le indagini, che allora diventarono più approfondite, determinarono l’irruzione delle forze dell’ordine tedesche nella sede delle Deutsche Bank e della sua unità di investimento con l’accusa di frode sugli investimenti di capitale.
Sicuramente la questione ESG è ad oggi ancora complessa e non esistono delle “linee guida” precise e universali. Questo chiaramente crea confusione e determina situazioni in cui le aziende commercializzano prodotti finanziari green come più “sostenibili” di quanto invece non lo siano in realtà. Tuttavia, le conseguenze che derivano da questi comportamenti scorretti sono rilevanti.
Infatti, nel caso DWS, dopo le perquisizioni le autorità di vigilanza hanno appurato che le accuse erano veritiere e questo ha comportato le dimissioni, lo stesso giorno, dell’amministratore delegato Asoka Woehrman. Inoltre, le conseguenze più importanti si sono riversate sulla credibilità della società sul mercato finanziario. Infatti, il prezzo del titolo (ISIN: DE000DWS1007) è sceso drasticamente in due momenti in particolare: a fine agosto 2021 quando sono iniziate le indagini e tra il 31 maggio e il 1° giugno 2022 in seguito alle perquisizioni. Questo oltre a generare una perdita di liquidità ha determinato chiaramente una minor fiducia dell’intermediario.
Attualmente non esiste una normativa che punisce il greenwashing, perché esistono differenti metodi di valutazione adottati dalle società. Tuttavia, data la diffusione e la rilevanza del fenomeno è possibile che in futuro, per prevenirlo, questo possa diventare un reato penale.
Il presidente della SEC Gary Gensler in merito al greenwashing scrisse in un tweet: “se è facile dire se il latte è senza grassi semplicemente guardando l’etichetta nutrizionale, potrebbe essere il momento di rendere più facile capire se i fondi “verdi” o “sostenibili” sono davvero quello che dicono di essere”. D’altronde il Fondo Monetario Internazionale (FMI), l’OCSE e la Banca mondiale esortano le autorità di regolamentazione a proteggere gli investitori dal greenwashing garantendo una maggiore trasparenza e la diffusione di informazioni veritiere.
Ludovica De Rose, associato in prova area Consulenza d’Impresa.
Con l’espressione Big 4 si identificano le quattro società di revisione e consulenza che si spartiscono il mercato mondiale. Originariamente erano 5 le principali società: Arthur Andersen, Deloitte, KPMG, Pwc e Ernst & Young. Tuttavia, dopo lo scandalo Enron, Arthur Andersen uscì da questa élite.
Nonostante l’elevata concentrazione del settore, non si deve credere che si tratti di un mercato poco competitivo. Al contrario, la competizione (sia interna che esterna) in questo ambito è a livelli nettamente superiori rispetto ad altri campi. Una rivalità ed una competizione così marcate rendono necessari ingenti investimenti, anche solo per rimanere competitivi.
Ernst & Young e le altre Big 4 che dominano il settore a livello globale (Deloitte, KPMG e PwC) sono stati aspramente criticati per una percepita mancanza di indipendenza nella loro revisione dei conti delle società a causa delle commissioni che generano anche dall’attività di consulenza, sia fiscale che commerciale.
Secondo un rapporto del Financial Times, la società di consulenza e revisione Ernst & Young è stata guidata dalle banche di investimento JPMorgan e Goldman Sachs in merito a una possibile quotazione o vendita della sua attività di consulenza. Un’offerta pubblica iniziale o una vendita parziale del ramo “consulting” della società, sarebbe la più grande scossa per il settore della consulenza globale dal crollo della società di revisione globale Arthur Andersen nel 2002. Tale operazione emulerebbe la quotazione pubblica iniziale di successo della società di consulenza Accenture nel 2001.
Per le pratiche di consulenza Big 4, infatti, le limitazioni nel lavoro con i clienti di audit sono un freno alla crescita mentre gli investimenti nel miglioramento dell’audit hanno prosciugato gli investimenti di capitale dalla loro attività di consulenza. Inoltre, La scissione della revisione contabile dagli altri servizi permetterebbe alle Big 4 di superare il conflitto d’interesse che continua a frenare, in particolare, lo sviluppo delle aree fiscali e legali. Si tratterebbe quindi di un piano per separare le attività di revisione dei bilanci da quelle di consulenza aziendale per rimuovere i sospetti e le accuse di conflitto d’interesse.
Dobbiamo anche considerare che i bracci di consulenza di queste società affrontano concorrenti non vincolati da lotte di audit. Accenture, ad esempio, diventata indipendente dal revisore dei conti Arthur Andersen nel 2000, ha registrato un fatturato di 51 miliardi di dollari lo scorso anno, quasi il doppio delle vendite di EY Advisory.
L’attività di consulenza di EY, che fornisce consulenza fiscale, gestionale e commerciale, ha generato vendite per circa 26 miliardi di dollari lo scorso anno finanziario, circa due terzi del reddito globale totale dell’azienda di 40 miliardi di dollari. L’attività di audit, invece, ha fruttato circa 14 miliardi di dollari lo scorso anno. La divisione delle due attività consentirebbe alla creazione di un’attività di revisione indipendente e permetterebbe all’attività non di revisione esistente di accedere a più capitale, potendosi così espandere più rapidamente.
Lo scorporo con la successiva creazione di due entità con centro di profitto differenti, se venisse accettato da tutti i soci, costringerebbe molto probabilmente le altre Big 4 a valutare l’idea di seguire l’esempio di EY e dare inizio, così, a una vera e propria rivoluzione nel mondo della consulenza e dell’audit.
Edoardo Manca Rizza, Associato in prova Area Consulenza d’Impresa.
Il Guerrilla Marketing è una strategia di comunicazione non convenzionale che ha l’obiettivo di ottenere grandi risultati con un piccolo sforzo economico. Il messaggio pubblicitario è veicolato utilizzando metodi anticonformisti e spiazzanti in grado di coinvolgere il consumatore e lasciare il segno. Nell’ambito della comunicazione sociale riesce a dare forma in modo innovativo e creativo a temi spesso difficili da affrontare. Agendo sul territorio utilizza l’effetto “sorpresa” aprendo così un dialogo più efficiente con il consumatore che viene stimolato ad una riflessione. Alcuni esempi ci arrivano dal World Wide Fund for Nature, meglio conosciuto come WWF.
L’organizzazione, da sempre, cerca di fermare il degrado ambientale del pianeta, con l’obiettivo di creare un mondo in cui l’umanità possa vivere in armonia con la natura. Una delle campagne pubblicitarie più entusiasmanti create dal WWF con gli strumenti del Guerrilla Marketing è nota con l’hashtag “#chièstato?”. Il tema principale nella campagna ruota intorno alla denuncia del commercio illecito di specie e risorse naturali.
Attraverso il claim provocatorio “chi è stato?” si rivolge direttamente ai cittadini cercando di informarli sul problema e appellandosi a loro per sostenere i vari progetti in campo.
Nel 2014 a Milano, in piazza Cadorna, il WWF allestì una fittizia scena del crimine, costituita dai classici nastri gialli e neri usati dalla polizia per delimitare l’area, posizionando il corpo di un rinoceronte africano sull’asfalto, coperto da un lenzuolo bianco. Per enfatizzare il crimine e permettere un rapido riconoscimento dell’animale, l’unica parte visibile del corpo era il muso insanguinato e mancante del corno. L’installazione non presentava alcun tipo di descrizione se non il semplice hashtag #chièstato sul nastro giallo e nero. Questa campagna fu di forte impatto, tanto che quella mattina attirò l’attenzione di molti passanti che si fermarono per cercare di capire cosa fosse successo, talvolta anche scattando foto e condividendole sulle maggiori piattaforme social. La campagna non si fermò alla semplice installazione della “scena del crimine” ma continuò anche il giorno dopo con la messa in scena di una performance dal vivo in cui attori vestiti da polizia scientifica analizzavano la scena del crimine. Solo dopo i volontari del WWF intervennero per svelare il tema della campagna, distribuendo materiale informativo ai passanti. L’obiettivo era sensibilizzare le persone sul tema del bracconaggio, che ogni anno uccide oltre 1000 rinoceronti e un numero impressionante di elefanti solo per poter utilizzare e rivendere il loro avorio. La presenza di un video online di spiegazione, unito all’hashtag #noisappiamochièstato, consentì a molte persone di conoscere il problema, generando un passaparola e un coinvolgimento sui social media molto forte.
La campagna ideata risultò vincente soprattutto per la scelta del luogo dove fu posizionata l’installazione e cioè piazza Cadorna esattamente all’uscita dell’omonima stazione, un luogo di passaggio per numerosi pendolari che arrivano quotidianamente in zona per lavoro. L’elemento alternativo e “controcorrente” è che un luogo normalmente adibito ad un transito veloce diventa un posto dove fermarsi qualche minuto e riflettere su un problema apparentemente lontano, iniziativa che quindi punta principalmente a raggiungere maggiore visibilità.
Il pubblico accolse con grande entusiasmo il lavoro dell’organizzazione, la prova sono sicuramente le numerose condivisioni, tweet e commenti positivi rintracciabili in rete sull’argomento.
A questa iniziativa del WWF va anche il merito di aver costituito una narrazione interessante, alla base di tutto per lanciare la campagna, la storia del rinoceronte arrivato da un posto lontano e ucciso poi nelle piazze di Milano è una metafora perfetta per sottolineare le conseguenze delle nostre azioni su scala globale, e questo porta, ancor di più, a far riflettere i passanti.
Chiara Gentile, associato in prova area Marketing.
Il ventinove marzo 2017 in seguito ad un referendum nazionale, dove quasi la metà della popolazione britannica votò per lasciare l’Unione Europea, il governo comunicò, a seguito del verdetto, la sua decisione formale di ritirarsi dalla stessa. Il trentuno gennaio del 2020 la Gran Bretagna lascia definitivamente l’Unione, diventando il primo e fino ad ora unico paese ad abbandonare l’organizzazione. Infine, il trenta dicembre 2020 viene firmato il “Trade and cooperation agreement”, che diverrà efficace a partire dal primo maggio 2020, un patto di cooperazione e di scambio tra l’Unione Europea e la Gran Bretagna.
Il Trade and Cooperation Agreement regola i rapporti tra l’Unione europea e la Gran Bretagna per quanto riguarda lo scambio di beni e servizi, gli investimenti, la competizione e molto altro, in generale si occupa di tutti i rapporti possibili tra le due, sia economici, che ambientali o di sicurezza.
Prima della Brexit la Gran Bretagna attraeva decine di migliaia di lavoratori da tutto il mondo ogni anno, i quali erano principalmente attratti dalle opportunità offerte dalla capitale, Londra, più in particolare dalla “City”, il centro finanziario della città. In seguito alla Brexit però molte aziende hanno spostato la loro sede legale altrove, comportando una notevole riduzione delle risorse umane operanti nel Paese. Basti pensare che solo nel settore finanziario si sono trasferiti all’incirca 8000 lavoratori nel periodo seguente la Brexit, essi si sono spostati in altre capitali europee al seguito delle loro compagnie. Il trasferimento delle sedi è avvenuto per proteggere i profitti visto che il Trade and cooperation agreement ha incrementato di molto i costi per spostare prodotti e servizi al di fuori del paese.
Un’altra conseguenza della Brexit è stata la perdita di rilevanza finanziaria della City. Londra è stata per decenni la capitale finanziaria dell’Europa, ma dopo la Brexit il suo trono è stato insidiato da altri mercati come: Amsterdam, Parigi, Francoforte, Dublino e Milano. Al momento il London Stock Exchange si combatte il ruolo di maggiore stock exchange in Europa con l’EURONEXT, con sede ad Amsterdam, (in realtà si tratta di un exchange pan-europeo, che opera in sei diverse città oltre a Londra, cioè Bruxelles, Dublino, Lisbona, Milano, Oslo e Parigi), l’LSE al momento è ancora il maggior stock exchange, ma sta rapidamente perdendo terreno rispetto ai competitors. Nel 2020, dopo che la Gran Bretagna ha lasciato l’Unione Europea l’export di prodotti e servizi finanziari verso la stessa ha perso più o meno il 15% del suo valore rispetto all’export all’interno dell’unione, ma da allora sono cresciuti più o meno alla stessa velocità, senza però riuscire a recuperare il 15% perso nel 2020.
In una recente intervista Mark Carney, ex governatore della Bank of England, ha dichiarato ”nel 2016 l’economia inglese risultava essere almeno il 90% dell’economia tedesca, adesso invece vale meno del 70%”. Bisogna anche precisare che questa perdita di terreno è anche in parte dovuta alla perdita di valore della sterlina.
Nonostante la Brexit, Londra sembra rimanere un luogo molto attraente per fare business, quindi è probabile che anche se stia perdendo terreno rispetto alle altre capitali europee, nel prossimo futuro resti comunque dominante nel panorama del business europeo.
In una società figlia di un mercato del lavoro sempre più competitivo ed esigente, la questione del “merito”, tanto in ambito descrittivo, quanto in ambito normativo, assume una rilevanza fondamentale.
La prima domanda che si pone è di natura ontologico-definitoria. È necessario cioè chiedersi cosa sia, in forma ed in sostanza, il merito. Per risolvere tale problema è essenziale impiegare il termine proprio, che non è “merito”, in questo caso, ma “meritocrazia”: il centro della disputa non sta nell’esistenza, o nella possibilità dell’esistenza, di un rapporto di causa-effetto tra il giudizio esterno oggettivo (1) sulle azioni degli individui e la determinazione di una gerarchia sociale, quanto piuttosto nella legittimità di tale processo attributivo. Dunque, una definizione a mio parere sufficientemente coerente ed esaustiva potrebbe essere questa:
“La meritocrazia è un sistema di costituzione della gerarchia sociale, e dunque dei privilegi e degli oneri da essa derivanti, determinato dal giudizio esterno oggettivo sulla condotta degli individui che la compongono”
Alcune note a riguardo:
Le domande che si pongono ora sono fondamentalmente due:
a) Se sia, in primis, eticamente legittimo impiegare un sistema meritocratico nell’organizzazione della società;
b) Se, nella società contemporanea, i valori e dunque i parametri attraverso i quali si determina cosa costituisca il merito a livello qualitativo, e come esso possa essere “misurato” a livello quantitativo, siano effettivamente “giusti”.
In entrambi i casi non vi è una risposta univoca ed oggettiva, ma solo una ragionata interpretazione induttiva delle molteplici forme di organizzazione sociale che si sono susseguite nella storia. Il primo dato di interesse è che, probabilmente, società completamente non meritocratiche non sono mai esistite. Persino i sistemi di “nobiltà di spada” avevano al loro interno una sorta di fisiologico correttivo meritocratico: tante casate nobili sono sorte dal nulla, e nel nulla ripiombate. Per quanto, infatti, l’aristocrazia sia per definizione una classe sociale cristallizzata (sebbene molti siano i casi nella storia di famiglie in origine umili divenute poi nobili: in primis i Medici), esiste al suo interno un meccanismo selettivo, che nei secoli ha premiato alcune dinastie, e sradicato molte altre (basti pensare alla fine della Corona francese, ed alla strenua sopravvivenza di quella inglese).
Ma quali sono i vantaggi di un sistema feudale, di un sistema cioè con una classe dirigenteruling class virtualmente inamovibile? Senza dubbio la stabilità, che ne è però anche il più grande difetto genetico. Una società senza ricambio della classe dirigente tende ad essere refrattaria al cambiamento, alla crescita economica, al proliferare dell’innovazione culturale. Per quanto la figura del monarca illuminato potrebbe apparire come una notevole eccezione, è pur vero che nel Seicento e nel Settecento europeo, epoca di maggior fioritura dell’assolutismo, i sovrani tesero a poggiare la propria azione di riforma non sulla nobiltà di spada, ad essi teoricamente più affine, ma sulla nascente borghesia, e soprattutto sull’apparato statuale che essa aveva contribuito in modo determinante a formare. Dunque, gli ultimi grandi sovrani ereditari d’Europa regnarono per conto e negli interessi in primis dei borghesi, quelli che invece rimasero ancorati ai poteri dell’ancien regime, come dimostra la rivoluzione inglese, e ancor di più quella francese, finirono per perdere la propria autorità, o per essere spazzati via.
Questo meccanismo fisiologico di selezione, che agisce persino nel caso di civiltà la cui gerarchia sociale abbia al vertice la nobiltà, è senza dubbio ancor più essenziale nelle società borghesi. Per trattare il tema è forse necessario fare un passo indietro e chiedersi perché esistano gerarchie all’interno della massima parte delle formazioni sociali sorte nel corso della Storia. La risposta risiede in un dato economico, anzi, forse nel dato economico per eccellenza: la limitatezza delle risorse. Se ogni bene e valore fosse immediatamente accessibile a tutti, senza alcuna difficoltà o prezzo, forse la società per come la conosciamo non sarebbe mai venuta in eEssere. E, generalmente, meno sono le risorse, più rigida è la gerarchia (anche se chiaramente non si tratta di una regola generale, quanto più che altro di una tendenza spesso suffragata, spesso contraddetta). Il potere, nella sua forma più pura, è, dunque, potere di gestire risorse (umane, economiche, militari). E l’obiettivo primario di ogni società è la conservazione di sé stessa, in quanto l’esistenza è il presupposto di ogni altro obiettivo potenzialmente perseguibile. Per garantire la sopravvivenza è condizione necessaria ma non sufficiente che le risorse vengano gestite abbastanza bene da non comportare l’estinzione. Ovviamente ogni forma di società ritiene di impiegare le proprie risorse ottimamente: la storia ci dimostra che non è mai così.
Come e perché le società definiscano le gerarchie che le determinano in uno specifico modo è argomento troppo ampio, che esula dall’ambito che si sta trattando, eppure un dato rilevante è che la maggioranza di esse abbia scelto un modello di diseguali. Una diseguaglianza sviluppata su due piani: quello “Privato” (le risorse di cui materialmente dispone un individuo per soddisfare i propri bisogni in funzione delle utilità che persegue) e quello “Pubblico” (il potere, attribuito ad un individuo, di disporre di risorse collettive nell’interesse generale). E, nel solco segnato da ormai pacifiche interpretazioni dottrinali, sarà opportuno denominare questo “potere privato”, “potere” in senso stretto, e questo “potere pubblico”, “potestà”. Chiaramente la distinzione tra i due è a dir poco labile: il potere sconfina spesso nella potestà, e la potestà si trasforma spesso in potere. Persino gli stati astrattamente più egualitari della Storia, quelli socialisti del Novecento, furono strutturalmente piramidali, nonostante una diffusa quasi-uguaglianza sostanziale;, sebbene tale gerarchia sociale non fosse determinata dalla capacità di produrre ricchezza (come nel tipico modello borghese) quanto piuttosto dalla capacità di amministrare e governare le complessità di un apparato partitico-burocratico ipertrofico.
Se è forse immaginabile un mondo in cui tutti vivano degli stessi mezzi, o meglio dei mezzi che equitativamente siano adeguati alla conduzione dignitosa della loro esistenza, è invece a mio parere sostanzialmente inconfigurabile un mondo in cui tutti abbiano la stessa potestà. È impossibile realizzare una costante assemblea universale, un’“incondizionata democrazia di tutte le cose”: troppe sono le difficoltà, troppe le complessità, troppe le ignoranze. Tra la sovranità costituzionale della volontà popolare, e l’effettivo processo decisionale, è necessaria la stabilità mediatrice dello Stato, e della rappresentanza democratica. Questo perché, soprattutto nella nostra sempre più complessa e specifica contemporaneità, le competenze necessarie a prendere decisioni di interesse generale in determinati ambiti, sono divenute sostanzialmente inacquisibili se non tramite lunghi percorsi di studio ed iper-specializzazione. Alcune crisi, come quella pandemica, si sono potute e si possono affrontare solo in virtù di apparati statuali e privati il cui paradigma organizzativo è, o almeno dovrebbe essere, fondamentalmente quello meritocratico. È d’altronde autoevidente che i problemi vadano affrontati da coloro i quali siano più naturalmente predisposti e positivamente educati a risolverli. Eppure, tale principio sembrerebbe essere contraddetto dalla prassi elettorale, che non fa della capacità amministrativa il fulcro della figura dell’uomo politico, ma tende a prediligere invece l’abilità nel raccogliere consenso, spesso completamente slegata dalla prima. Lo spesso zoppicante “merito” della classe politica viene ad essere spesso compensato dall’efficienza dell’apparato statuale. Il politico democraticamente eletto dovrebbe, nella contemporaneità, avere l’intelligenza di non esercitare una potestà arbitraria, ma di dirigere e gestire, secondo i valori etici delle parti sociali che rappresenta, la complessità della macchina amministrativa, attraverso le competenze e le procedure ottimizzate che essa ha nel tempo elaborato. In sostanza, il “controllo di qualità” che l’elettorato opera sulla classe politica, è ormai esercitato solo attraverso la “rimozione” (ossia la mancata riconferma) e non attraverso un controllo preventivo (la cui genuinità è spesso viziata dall’invasività dell’elemento umano (la “simpatia”) e delle strategie comunicative).
Nell’avvicinarsi alla conclusione, è opportuno, dopo aver osservato l’oggettiva difficoltà di configurazione di un sistema di gestione delle risorse non meritocratico, enumerare anche i problemi strutturali che ostacolano il pieno inverarsi della meritocrazia stessa. È impossibile, se non colpevole, ignorare che al mondo non nasciamo tutti con loe stesse possibilità. È certo più facile studiare quando puoi permetterti i libri di testo, più facile essere indipendenti quando hai come pagare l’affitto, più facile seguire le proprie aspirazioni quando un part time non è l’unica cosa che ti separa dalla strada. È dovere della Repubblica rimuovere integralmente tali ostacoli, rendendo lo studio sostanzialmente accessibile e sostenibile per tutti. L’istruzione, dalle elementari all’università, è, e dovrà essere sempre più, il massimo strumento di giustizia sociale a disposizione dello Stato, un ascensore che sollevi i capaci e i meritevoli. Eppure, si potrebbe dire che ciò non basti. Che chi nasca meno talentuoso, meno adatto alla competizione, non debba avere meno possibilità di arrivare all’apice delle varie strutture sociali. È forse un punto di vista sostenibile dal punto di vista etico, ma difficilmente concretizzabile.
Tancredi Bendicenti, associato in prova Area Legale.
Elon Musk ha cofondato sei società tra cui il produttore di auto elettriche Tesla, il produttore di razzi SpaceX e la startup di tunneling Boring Company. Twitter è un sito di notizie e social network online in cui le persone comunicano in brevi messaggi chiamati tweet. L’uomo più ricco del mondo con un patrimonio netto di circa $ 200 miliardi, secondo Bloomberg News, è stato a lungo un potente utente del social network. Come proprietario, si definisce “Chief Twit”.
L’acquisizione di Twitter da parte di Elon Musk è iniziata il 14 aprile 2022 e si è conclusa il 27 ottobre 2022. Il magnate degli affari Elon Musk ha iniziato ad acquistare azioni della società di social media americana Twitter, Inc. nel gennaio 2022, diventando infine il maggiore azionista dell’azienda ad aprile con una quota di proprietà del 9,1%. Twitter ha quindi invitato Musk a unirsi al suo consiglio di amministrazione, cosa che Musk inizialmente ha accettato prima di rifiutare successivamente. Il 14 aprile, ha fatto un’offerta non richiesta per l’acquisto della società per 43 miliardi di dollari, a cui Twitter ha risposto con una strategia di poison pill per resistere a un’acquisizione ostile. Il 25 aprile, il consiglio di amministrazione di Twitter ha accettato all’unanimità l’offerta di acquisto di Musk di $ 44 miliardi, con la società destinata a diventare privata. Musk ha dichiarato di aver pianificato di introdurre nuove funzionalità nella piattaforma, rendere i suoi algoritmi open source, combattere gli account di spam bot e promuovere la libertà di parola.
Tuttavia, Musk ha annunciato la sua intenzione di rescindere l’accordo nel luglio 2022, affermando che Twitter aveva violato il loro accordo rifiutandosi di reprimere gli account spambot. La società ha intentato una causa contro Musk presso la Corte di Cancelleria del Delaware poco dopo, con un processo programmato per la settimana del 17 ottobre. Settimane prima dell’inizio del processo, Musk ha invertito la rotta, annunciando che sarebbe andato avanti con l’acquisizione. L’accordo è stato concluso il 27 ottobre, con Musk che è diventato immediatamente il nuovo proprietario e CEO di Twitter. Ha anche licenziato diversi alti dirigenti, incluso il precedente CEO Parag Agrawal. Da allora Musk ha proposto diverse riforme a Twitter, inclusa la creazione di un consiglio di moderazione dei contenuti per gestire la libertà di parola e licenziato metà della forza lavoro dell’azienda.
Twitter ha subito un enorme calo delle entrate a causa degli inserzionisti che hanno sospeso la spesa sulla piattaforma dei social media, ha dichiarato venerdì il CEO di Twitter e Tesla Elon Musk senza fornire numeri. Le principali aziende tra cui General Mills, Audi e General Motors hanno dichiarato che sospenderanno temporaneamente la spesa pubblicitaria su Twitter per vedere come le cose sarebbero cambiate lì sotto la proprietà di Musk. Secondo la piattaforma di analisi degli annunci Media Radar, le entrate pubblicitarie di Twitter erano in declino prima del completamento dell’acquisizione di Musk e prima che le organizzazioni della società civile iniziassero a fare pressioni sui marchi.
Elon Musk ha affermato che Twitter addebiterà $ 8 (£ 7) al mese agli utenti di Twitter che desiderano un segno di spunta blu accanto al loro nome che indichi un account verificato. La mossa potrebbe rendere più difficile identificare fonti affidabili, affermano i critici. Musk, la persona più ricca del mondo, ha aggiunto che gli utenti a pagamento avrebbero la priorità nelle risposte e nelle ricerche e nella metà degli annunci pubblicitari. Ma Nu Wexler, ex Twitter Head of Global Policy Communications, ha avvertito che l’introduzione di una tariffa per i segni di spunta blu potrebbe rendere più difficile individuare la disinformazione. Poiché la disinformazione è un problema con cui molte piattaforme stanno lottando, la verifica è uno dei modi utilizzati da giornalisti, ricercatori accademici e alcuni utenti per filtrare la disinformazione o le informazioni di bassa qualità. Il precedente metodo di Twitter per verificare gli utenti per un segno di spunta blu includeva un breve modulo di domanda online ed era riservato a coloro le cui identità erano bersagli di rappresentazione, come celebrità, politici e giornalisti.
Francesca Romana Adele Cicconi, associato in prova area Audit.